mercoledì 20 febbraio 2013

Gerontes eis To Galikianos (Gente di Gallicianò)

Un tornante dietro l’altro, una strada accidentata che si inerpica sempre più in alto, che si ficca sempre più verso l’entroterra.
Buche grosse come crateri sulla carreggiata e  rocce franate mai sgomberate. Strade a strapiombo. Sul nulla. Servirebbe una 4x4 invece che questa mia delicata utilitaria che trasale ad ogni fossa, arranca un poco sulle curve a gomito, avanza circospetta per non impattare con un gregge sbucato all’improvviso dalla boscaglia. Per un pezzo a salire si costeggia il ventre aperto dell’Amendolea, secco, pietroso, una vena asciutta che spacca a metà i monti e segna una linea verso il mare. Verso il largo.
Passato un piccolo ponte in muratura, la strada si fa stretta e più ripida. Dietro resta una sgangherata fermata dell’autobus a ridosso della montagna e un allevamento di maiali, nel greto della fiumara. Si ha la sensazione forte della vertigine della salita e l’impressione di inoltrarsi in una fenditura nella carne viva.
Salgo a Gallicianò, bastione grecanico nell’entroterra della provincia reggina.
Si racconta che sia stato fondato in mezzo agli spuntoni di roccia perché la costa faceva paura e perché ci si doveva difendere dalle incursioni turche. Un posto in alto e tremendamente isolato. Con un colpo d’occhio si domina tutto, dalla valle alla marina, senza ostacoli.
Il paese è piccolo come il nido che accoglie gli sparuti pulcini di un passero. E deserto. Apparentemente. Da qui vanno via tutti, i giovani cedono al richiamo economico della marina e delle città più grandi. Il paese si spopola, si immiserisce. Restano in pochi. Restano i vecchi. Silenziosi, discreti. Osservano da lontano, scrutano, salutano cordialmente.
 
 
La loro identità l’appendono orgogliosamente alle finestre, azzurra e bianca. Greca. Millenaria. La custodiscono nel cuore e, ancora più in fondo, nella lingua. Sono loro, i vecchi, gli ultimi baluardi ellenofoni di questo pezzo di Calabria.
 
 
Ne incontro una, vestita di nero, coi capelli raccolti, le mani gonfie. Mi invita a bere un caffè, intanto mi parla del figlio che suona in un grosso complesso folk, dei suoi parenti a Reggio e del marito morto mentre trasportava gelati. Dei suoi malanni mi mostra le cicatrici lungo le gambe e sembra conoscermi da anni. Ripete questi argomenti un’infinità di volte e tante e tante altre mi invita a bere il caffè.
 
 
Prima di lasciare il paese capito per caso davanti ai cancelli chiusi del cimitero. L’ultima immagine che mi porto via è quella di lapidi zeppe di fiori dai colori brillanti. Tanti, tantissimi fiori. Di plastica.

2 commenti:

  1. il cane della prima foto mi fa impazzire!

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    1. Pensa che per paura di perdere lo scatto ho fatto due prove. Per fortuna, devo dire, perché delle due quella migliore è stata proprio questa che ho scattato per seconda. Il cagnozzo è stupendo, piccolo, tozzo e per di più guarda pure nella mia direzione! :D

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